Fabrizio D’Amico,
in un articolo su Repubblica
in occasione della mostra a Torino.
1935 - 2003
Il passaggio dall’ apprendimento degli strumenti dell’arte, alla consapevolezza di una scelta che si è successivamente trasformata in condizione di vita, trova la sua realizzazione all’Accademia di Belle Arti di Firenze alle scuole di Ugo Capocchini e Rodolfo Margheri maestri di vita e di mestiere, fra il 1954 – 55 e il 1959 – 60. Ambedue provenivano per esperienze di formazione ancor più che per essere stati parte integrante di una cultura figurativa novecentista. Per quel che mi riguarda, questo aspetto questa cultura, si è poi rivelata essenziale negli approfondimenti del mio lavoro, ma i miei maestri furono altri, voglio dire quelli che si scelgono per affinità e ai quali ci si lega ideologicamente, perché faranno parte dopo dell’emisfero dell’immaginazione, della linea genetica strutturale che scorre nei gesti della creatività naturalmente, per dare inizio alla formazione dello stile. Cercando nel passato fra gli anelli di una catena che ha significato in modo profondo questo rapporto, devo, per mettere a fuoco, per dare il rilievo che meritano queste prime due figure nel complesso caleidoscopio del mio lavoro, iniziare la descrizione dagli esordi. Nel 1954 alla conclusione dell’anno di studi, l’Istituto d’arte di Lucca, scuola precedente al quadriennio di formazione, organizzo come premio agli studenti migliori, un viaggio a Parigi, città che proprio in quell’anno consacrava con due mostre antologiche l’opera di Picasso grande e rivoluzionario protagonista dell’arte contemporanea. La prima al Louvre raccoglieva tutta la pittura fino al 1950 con la scultura e le ceramiche, la seconda alla Biblioteca Nazionale esponeva tutta l’opera grafica. Fu una esperienza elettrizzante che contribui ad aggiungere forza e consapevolezza a quella che dopo, divenne una scelta di vita che non ha mai dato motivi a pentimenti. Una scelta di vita che tento di raccontare in questo breve testo, che vuole ricostruire un percorso consolidando cosi anche una prima traccia per un disegno autobiografico che si intreccia con la figura di un intellettuale fiorentino che ebbe per me e il mio lavoro importante rilievo: lo scrittore Piero Santi, il quale oltre i suoi meriti come scrittore contro corrente si prodigò, senza alcuna riconoscenza della città, perché Firenze continuasse ad essere operativa e sensibile alle cose dell’arte e nel ruolo di guida, nel rispetto della storia. Questa necessità di sovrapporre due argomenti in un unico alveo è un bisogno forse di mettere a posto storicamente e dal mio punto di vista quanto più possibile obbiettivo, fatti e accadimenti che mi hanno in qualche modo coinvolto. Vi troveranno posto anche concetti, pensieri mai espressi, intuizioni e conferme, criticamente svolti sulla materia che normalmente costituisce il sostegno teorico di un artista. Dunque il passaggio alla fiorentina istituzione leopoldina avvenne alla conclusione degli studi a Lucca all’Augusto Passaglia, istituto d’arte allora secondo solo a quello fiorentino di porta romana. Nel periodo che vissi quella esperienza scolastica l’istituto fu passerella ideale di preparazione agli studi superiori e fu quanto mai importante anche nell’apprendimento delle tecniche tradizionali, come la tempera encaustizzata e il vero fresco ma soprattutto nella conoscenza di Maestri dai quali molto ho ricevuto, e qui voglio ricordare fra tutti, Ezio Ricci, Guido Ferroni, Giuseppe Ardinghi e lo scultore Vitaliano De Angelis. L’impatto con la nuova scuola in un primo momento fù negativamente sorprendente. Ho dovuto, in qualche modo costretto dalla consolidata e rassegnata didattica del momento disegnare e dipingere il nudo in classiche pose ottocentesche, mentre ho sempre ritenuto, sostenendolo che questa tipologia di esercizi non potesse proporre indirizzi volti alla sperimentazione - obbligo morale della scuola - più tardi ne compresi una qualche utilità anche verso lo sperimentale da utilizzare solo nell’esercizio del disegno conservandolo dopo nel bagaglio del mestiere. Ugo Capocchini e Rodolfo Margheri furono, nonostante seguissero nell’insegnamento questa logica, di grande aiuto alla mia formazione, prima per comprendere il panorama nel suo complesso, delle arti figurative in quegli anni a Firenze e durante la frequentazione perchè ho potuto con loro, trascorrere tempo prezioso all’apprendimento del loro mestiere. Il primo di questi artisti di una generazione precedente a quella del secondo, si affermò recuperando nello stile e nella forma, l’impianto da neoclassicismo storico, confermandolo in atteggiamento di ricerca, dopo la breve parentesi legata alle influenze fra il bolognese Romagnoli e Carena, con una pittura abile e fluida, rapida nella pennellata e per le invenzioni compositive ispirate alla mitologia, spontaneamente trovate. Personalità quanto mai tormentata ed inquieta agli esiti formali. Gli anni del dopo guerra furono per lui gli anni affidati all’influenza picassiana e questo si realizzava prudentemente intorno ai primi anni cinquanta dimostrando quanto fu grande la lezione del pittore catalano che raggiunse tra l’altro molti artisti italiani. Picasso rappresentò un inno alla libertà d’espressione per l’arte contemporanea italiana, dopo il periodo infausto del fascismo e della guerra. Per il nostro artista valse soprattutto a riscattare il suo talento affermando la maturità della sua opera, ma ancor più distinguendosi verso una contemporaneità “aggiornata”. Imponendo a tale aspetto originalità nei temi e nella tecnica dove svolgeva una rara e raffinata materia pittorica alla quale si aggiungeva un forte e intenso senso del colore. Tutto questo composto costruito, su impalcature figurative, come il ritratto, la natura morta, soggetti a lui molto cari da questo momento in poi. In altri aspetti o composizioni più complesse nella struttura del quadro, Capocchini non si è più misurato, comunque non fecero più parte del suo repertorio. Margheri, allievo diretto di Felice Carena e fra tutti gli allievi il più vicino alla lezione del maestro, senza per altro rimanerne soggiogato, spaziava con grande qualità di mestiere in discipline diverse, in linguaggi certo di dimensione e tradizione storica, quali l’affresco, la vetrata istoriata e l’incisione calcografica, di quest’ultima espressione ritengo sia fondamentale la sua opera nella storia della calcografia, per l’invenzione di nuove tecniche applicate ai contenuti. Artista del quale è doveroso mettere in evidenza le diverse e importanti opere pubbliche dove seppe dare il meglio di sé, sempre concepite nel massimo rispetto della storia dell’arte. Ne cito due, per me fra le più belle e importanti: la decorazione del soffitto nel rondò di Bacco a palazzo Pitti a Firenze, che rappresenta il sistema della costellazione zodiacale e la vetrata absidale di S. Lucchese a Poggibonsi. Ora volgendo lo sguardo nel luogo e nel tempo in cui hanno operato questi artisti, per accennare pur brevemente, al clima che viveva la scuola fiorentina; tranne un gruppo costituito e ridotte isole individuali che affrontavano il ruolo di avanguardie, nella competizione nazionale verso l’Europa, il clima appunto era piuttosto languido, abbandonato ad una produzione figurativa rigorosamente provinciale, retaggio della prona sottomissione al dominio spartito fra due artisti quanto mai diversi tra loro, comunque legati al comune interesse di mantenere Firenze in uno splendido isolamento immune da ogni trasgressione alla tradizione: Ottone Rosai e Pietro Annigoni. Tuttavia in questo decennio, sono gli anni ultimi dei quaranta e i primi del decennio successivo una discreta parte di artisti restava ancora legata all’influeza distribuita dal piemontese Carena unico ed ultimo produttore di un vagito verso l’Europa. Carena, artista di prima grandezza del novecentismo italiano che dominò sulla cultura figurativa della regione, con la trasmissione che ne facevano l’istituto d’ arte di porta romana e l’Accademia di belle arti, scuole che allora e per qualche tempo dopo fino al 1968 furono degne di apprezzamento, palestre di formazione per giovani artisti. Dopo il fatidico 68 che doveva sconvolgere la società è iniziata al contrario la inarrestabile decadenza. Gli asini al potere! che con insana arroganza hanno saputo sconvolgere ciò che la storia aveva sedimentato verso la qualità, edificando un mostro dove tutto è possibile cioè il nulla. Abbiamo tralasciato, solo per questa breve divagazione, d’altra parte dovuta, la conoscenza di Felice Carena al quale Firenze deve molto. Fabrizio D’Amico in un articolo su Repubblica in occasione della mostra che Torino gli ha dedicato, scrive queste significative parole, “le belle pagine di questo pittore risentono di un respiro europeo, pagine governate dallo studio di Rodin e Cezanne “. L’artista non ebbe grande fortuna a Firenze se non per la impronta che dette alla sua scuola negli anni dell’insegnamento all’Accademia di Belle Arti. Trascorso il tragico periodo della guerra fu epurato perché ritenuto il simbolo di un regime oppressore, al quale per altro l’ artista non dette adesione figurativa nella sua lunga attività toscana e non come altri artisti che nello stesso periodo ebbero a consacrare con ritratti e monumenti equestri dipinti, la figura del dittatore e da quel regime, da quel tormentato tempo ne uscirono indenni. Carena ebbe, a mio parere, il solo torto aderendo al fascismo di accettare la onorevole feluca di Accademico d’Italia, comprensibile quanto necessaria vanità per l’epoca, istituzione che voleva imitare la più nobile e storica Accademia di Francia. Nomina tra l’altro che gli valse l’insegnamento e la presidenza all’Accademia di Firenze. Ho accennato prima scrivendo del clima artistico che si viveva a Firenze a Rosai, artista sul quale ho prodotto una tesi di diploma alla conclusione degli studi in accademia. Fu un pittore amato e odiato non solo da me raccolse la stima e la comprensione di molti intellettuali fiorentini, fra questi: Bilenchi, Luzi, Pratolini e lo stesso Santi con il quale ebbe un intenso sodalizio durato fino alla sua morte. Ma come per Carena l’ottocentismo ne soffocò la evoluzione verso il rinnovamento, così per Rosai i temi i contenuti popolari le suggestioni di vita di quartiere, che affascinavano tanto gli intellettuali non erano più potenzialità cosi fresche da contrastare quel sollevarsi giovanile che stava accomunando il resto del mondo e in particolare l’ Europa. Quindi il solo sussulto di novità avvenne nella ormai nota transazione dagli “omini agli omoni”. Il resto fu la continua ripetizione dei temi. In una altra parte dell’Italia artisti come Mafai, che possiamo considerare opposto in parallelo al nostro artista, aveva il coraggio di rimettere tutto in discussione, fornendo cosi ai critici ampia materia di dibattito, ma dimostrando di concepire la pittura con una visione contemporanea ai dubbi dell’uomo. L’Italia era attraversata nei primi anni cinquanta dal turbine “ dell’informale “ una vera tempesta come ha avuto modo di scrivere in un recente saggio Lara Vinca Masini; un vento che proveniva dall’Europa, finalmente aperta anche a noi italiani, dopo la chiusura o censura intellettuale che operò il fascismo negli anni del suo impero. Ancora studente, nel 1956 aderii a questo impulso giovanile, incoraggiato da personaggi della critica d’arte, convinti da questa febbre globalizzante, come appunto Piero Santi, Mario Novi, Marco Valsecchi intellettuali che vedevano questa inquietudine giovanile un processo inevitabile. L’informale,continua la Masini, “non era un movimento, una corrente, come ha sottolineato Argan, meno che mai una moda. Fu una situazione di crisi e precisamente della crisi dell’arte come “ scienza europea “; per me rappresentò una crisi positiva una crescita critica una crisi liberatoria, questo anche nella operatività all’interno della scuola. Tale ventata di libertà avvolse i giovani con grande entusiasmo tanto che consacrò due generazioni di artisti al successo; la generazione precedente la mia e la mia, cioè quella degli artisti che oggi hanno superato i sessanta anni. Il mio lavoro, passando anche a parlare di questo, più approfonditamente è andato cosi costruendosi nei tre momenti che oggi ritengo si possono distinguere per una ricerca affidata al confronto con l’attualità. Il primo di stampo materico informale, va dalla metà degli anni cinquanta all’inizio dei sessanta, il successivo si caratterizza per la costruzione di uno stile parallelo ai significati della Pop-Art americana, anche come poetica, decisamente più tecnologico negli strumenti di scrittura, carico di contenuti politici, affidato nella sostanza tecnica, a raffinate metodologie fotografiche. E’ un periodo del quale ho raccolto pochi esemplari, purtroppo, alcuni ancora miei, altri dispersi in raccolte private, prodotto relativo nella quantità per l’alto costo operativo. Momento del mio lavoro dicevo, che sento di attribuire alla definizione di “ realismo pubblicitario “. Queste tecniche hanno acutizzato il necessario e inevitabile passaggio al terzo momento che prende avvio, per la precisione cronologica alla metà degli anni settanta. E’ un momento, dove nell’opera, inizia a prevalere la tecnica sui contenuti, nella polemica rappresaglia, in questo rapporto stabilito fra artisti e critici. La pagina assume forti sensazioni di materia virtuale, il rilievo apparente e il colore trovano funzione nel racconto delle forme, che dipanano il significato. Le immagini che si stagliano sui fondi agiscono in relazione analogica alla realtà. Negli ultimi due anni ho lavorato su materiali sperimentali come le plastiche di vario tipo, d’uso consumistico interpretandole sempre con i colori, con la pittura, con la mia pittura, con la tecnica cioè dei colori soffiati a pressione; caratteristica che distingue lo stile da oltre un trentennio. Inoltre la costruzione compositiva e ideologica di queste recenti pagine tende sicuramente, a me pare, non volontariamente a rivedere aspetti di una parte del momento giovanile dell’informale, con un impatto sulla superficie meno drammatico e istintuale. La tavolozza è fortemente sostenuta dal numero elevato di toni, i quali su questo materiale, per sua natura non assorbente, rendono molto, sono accesi, come su nessun’altro supporto, ma proprio perché la superficie non assorbe e i coloranti essiccano più lentamente rendono il lavoro lento verso la conclusione. L’epoca in cui conobbi Piero Santi ed il momento che lo vidi per la prima volta fu negli anni di Lucca all’istituto d’arte, in una visita alla scuola, in comitiva con Ottone Rosai, Mario Novi, e il nipote di Ottone Bruno Rosai che all’istituto insegnava geometria descrittiva ma pittore anch’egli; un sopralluogo d’informazione ci dissero, per la curiosità di vedere come si lavorava in quel tipo di scuola. Per noi studenti fu un’occasione memorabile per conoscere personaggi importanti del mondo dell’arte. La verità forse era che gli intellettuali allora erano più curiosi, si muovevano di più per non perdere possibilità che potevano offrire occasioni d’indagine. Rividi il Santi per conoscerlo questa volta personalmente nella sua galleria dell’Indiano in borgo Ognissanti al primo piano di quel palazzetto dalla bellissima facciata art nuvò che fa bella mostra sulla via. Luogo espositivo importante ma anche affascinante per quel che passava li con mostre personali e di gruppo alla fine degli anni cinquanta. Era la seconda sede dell’Indiano dopo quella di via Roma. Galleria dove per la prima volta esposi dei quadri insieme ad altri giovani artisti tre romani e tre fiorentini e Dario Micacchi critico dell’Unità scrisse di questa mostra un breve ma attento articolo sui valori che proponeva. Da questo momento nacque un reciproco periodo di stima e simpatia che durò fino alla conclusione degli anni sessanta per l’esattezza alla premiazione di una mostra …